Adolf Eichmann ebbe il compito di organizzare in modo efficiente la deportazione degli Ebrei verso i campi di sterminio nazisti. Quando la Germania fu sconfitta, riuscì a rifugiarsi in Argentina sotto il falso nome di Riccardo Klement.
Alla fine degli anni ‘50 commise delle imprudenze che permisero al Mossad – i servizi segreti israeliani – di individuarlo in un sobborgo di Buenos Aires. Dopo poco tempo, nel 1960, fu catturato da un gruppo operativo di agenti segreti e trasferito in Israele, dove venne sottoposto a giudizio.
Fu sconcertante constatare, durante il processo, come il trasferimento degli Ebrei attraverso il sistema ferroviario tedesco e delle zone occupate, fosse stato trattato come abituale compito amministrativo da parte della burocrazia tedesca ed accettato supinamente dagli esecutori delle direttive del Führer.
Destò parecchio stupore il fatto che Eichmann – in netto contrasto con la condotta criminale che gli veniva attribuita – sembrasse una persona normale, apparentemente ordinaria. Seduto nell’aula di tribunale, non aveva le parvenze di un mostro sadico e demoniaco – pianificatore della deportazione degli Ebrei nei campi di sterminio – come ci si sarebbe potuti aspettare. L’impressione che suscitò l’aspetto dimesso dell’imputato ispirò il noto esperimento di psicologia sociale ideato da Stanley Milgram sulla disponibilità, da parte di gente comune, ad eseguire ordini impartiti da un’autorità ritenuta legittima anche nel caso in cui l’esecuzione degli stessi possa rappresentare un concreto pericolo per l’incolumità altrui.
Hannah Arendt seguì il processo di Gerusalemme come corrispondente del The New Yorker e da quella sua esperienza trasse il libro Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil che nell’edizione italiana avrà il titolo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
L’Autrice fa la disamina di tutte le fasi del processo ma ricostruisce anche, in modo approfondito, il meccanismo attraverso il quale era avvenuta l’individuazione di persone di origini ebraiche da parte delle autorità naziste e dei loro alleati, il loro confinamento, il loro trasporto attraverso l’Europa ed infine la loro eliminazione. Viene illustrato come gli Ebrei d’Europa fossero gradatamente finiti sotto il giogo tedesco e come esso, alla fine, li avesse schiacciati, conducendoli alle camere a gas ed ai forni crematori.
Il testo è denso di riflessioni. Vengono sviscerati tutti i temi che in qualche modo sono inerenti al processo, all’imputato ed ai crimini commessi. Sono trattate in modo approfondito questioni di diritto relative ai concetti di colpa, di reato, di pena, di legittimità dell’autorità, di giustizia in generale, soprattutto in considerazione delle nuove fattispecie di reato che si delineavano e che dovevano essere valutate dai giudici, neppure concepite dagli ordinamenti giuridici di differenti Stati e dalle norme dei vari organismi internazionali.
L’onestà intellettuale dell’Autrice è spiazzante. Non risparmia critiche ai capi delle comunità ebraiche per il comportamento tenuto durante il compimento dei propositi di sterminio hitleriani. La sua analisi è sempre lucida, puntuale, oggettiva, a tratti spietata ed impietosa. Il quadro che ne viene fuori è veritiero e sorprendente poiché inaspettato. Analizza minuziosamente anche l’atteggiamento dell’accusa e della difesa e non risparmia critiche alle loro strategie. Ha parole di considerazione soltanto per i giudici che – secondo l’opinione dell’Autrice – condussero il processo in modo pressoché irreprensibile.
La lettura del libro di Arendt – che si riferisce a fatti realmente accaduti – porta a meditare su cosa sia giusto scrivere, su cosa debba essere considerato legittimo anche nell’ambito dell’invenzione letteraria, su quale ammissibilità morale possa avere la stesura di testi che abbiano il proposito di suscitare emozioni nel lettore in modo artefatto. Dalle pagine del testo traspare lo sdegno, la rabbia, l’indignazione. Sono stati d’animo autentici, provocati da un crimine realmente perpetrato e di portata tale da essere inconcepibile per la mente umana. Tali emozioni – ancora vivide e palpitanti – fanno apparire meschini i tentativi di alcuni autori che, nel loro estro creativo, immaginano e congegnano situazioni che possano offrire loro pretesti fittizi per fare paternali e considerazioni filosofiche sugli uomini e sul senso dell’esistenza. Creare espedienti narrativi e far uso di tecniche di scrittura adatte allo scopo, sembra quanto mai fuori luogo e cinico. Diventa quindi inderogabile valutare l’opportunità di ricorrere ad escamotage per provocare stati d’animo in contesti chiaramente immaginari, quando invece ci sono tragedie immani – che avvengono nel mondo reale – che lasciano l’umanità più o meno indifferente. Corrisponde probabilmente all’esigenza, da parte di chi legge, di frastornarsi ed evadere dalla realtà, nella rassicurante consapevolezza che tutto ciò che è scritto sia frutto della fantasia dell’autore, in una catarsi liberatoria che avviene sotto la guida dell’officiante tronfio e compiaciuto.
Gaetano Ferrara