La lettura del libro «La banalità del male» di Hannah Arendt fa nascere delle riflessioni in ordine a ciò che è giusto scrivere ed alla funzione che debba avere l’invenzione letteraria.
Le emozioni che traspaiono dalle pagine del testo – lo sdegno, la rabbia, l’indignazione – fanno apparire meschini i tentativi di alcuni autori che, nel loro estro creativo, immaginano e congegnano situazioni che possano offrire pretesti fittizi per fare paternali e considerazioni filosofiche sugli uomini e sul senso dell’esistenza. La lettura del libro di Arendt – che si riferisce a fatti realmente accaduti – al di là del suo valore dal punto di vista storico e filosofico, porta a meditare su cosa sia giusto scrivere, su cosa debba essere considerato legittimo anche nell’ambito dell’invenzione letteraria, su quale ammissibilità morale possa avere la stesura di testi che abbiano il proposito di suscitare emozioni nel lettore in modo artefatto. Creare espedienti narrativi e far uso di tecniche di scrittura adatte allo scopo, sembra quanto mai fuori luogo e cinico. Diventa quindi inderogabile valutare l’opportunità di ricorrere ad escamotage per provocare stati d’animo in contesti chiaramente immaginari, quando invece ci sono tragedie immani – che avvengono nel mondo reale – che lasciano l’umanità più o meno indifferente. Corrisponde probabilmente all’esigenza, da parte di chi legge, di frastornarsi ed evadere dalla realtà, nella rassicurante consapevolezza che tutto ciò che è scritto sia frutto della fantasia dell’autore, in una catarsi liberatoria che avviene sotto la guida dell’officiante tronfio e compiaciuto.
Gaetano Ferrara